L’IA non ci sta rubando il lavoro, ma l’imperfezione

Ho parlato spesso di Intelligenza Artificiale. Ho cercato di farlo sempre in modo da creare domande e non dare sentenze. E lo voglio fare ancora una volta. Parto sempre da una delle frasi che alla gente piace dirmi, con un certo sorrisetto: “eh, l’intelligenza artificiale ti ruberà il lavoro”. Ne ho già parlato in questo articolo, quindi non ritornerò sul tema nello specifico ma, che mi lasci disoccupata e pronta a mettere in pratica il sogno nel cassetto di avere una fattoria, c’è qualcos’altro che l’IA sta già rubando, a tutti e non solo a me: l’imperfezione.

In una società in cui l’apparenza e l’assenza di difetti sono valori a cui tendere, l’imperfezione è in realtà fondamentale, soprattutto in ambito creativo.

Questo perché ci troviamo a descrivere e rappresentare un mondo imperfetto, persone con difetti, situazioni molto lontane dalla perfezione. Per farlo abbiamo bisogno di disallineamenti, piccole crepe, imperfezioni insomma. È ironico, però, che l’IA si sia allenata proprio sull’imperfezione umana per i suoi risultati ineccepibili. Voglio partire proprio da qui per analizzare un rischio molto concreto e attuale legato all’intelligenza artificiale. 

Il diritto d’autore: i rischi (concreti) dell’intelligenza artificiale

No, non dipingerò uno scenario alla Matrix, niente pillole né schiavitù della razza umana. Quello lo hanno già fatto (molto bene).

Parliamo invece di diritto d’autore, tema che fino ad oggi ho sempre e solo sfiorato, ma su cui vale la pena di fare un ragionamento per arrivare al punto dell’articolo. Quando parliamo di IA generativa, compreso il nostro caro ChatGPT,  parliamo di un’IA che genera un contenuto originale da un prompt (di solito) testuale. Questo potrebbe trarci in inganno perché, se è vero che il contenuto è assolutamente originale, dobbiamo renderci conto che l’IA è stata allenata per arrivare a quel risultato originale. Come lo fa? Immagazzinando ed elaborando una quantità enorme (davvero enorme) di dati, informazioni, testi, immagini, stili che in realtà esistono già e sono stati creati da artisti, autrici, autori… insomma: persone.

Ecco perché dietro al boom di immagini create nello stile Miyazaki/Studio Ghibli c’è un problema. Perché è vero che l’IA ha generato contenuti nuovi e mai disegnati prima, ma lo ha fatto sulle matite di esseri umani che hanno lavorato per anni e anni. Il fatto che lo stile fosse perfettamente riconoscibile non è tanto un vanto per l’IA, ma un’ulteriore prova dell’impatto della creatività umana e della necessità del riconoscimento di questa.

Proprio da questo voglio collegarmi alla tematica centrale di questo articolo:

Addio originalità: i rischi (nascosti) dell’intelligenza artificiale.

Un rischio di cui in realtà si parla poco, ma già molto presente, è l’appiattimento dell’originalità. Il caso più lampante, e che coinvolge una quantità incredibile di persone, si trova su una piattaforma social che conosciamo bene: LinkedIn.

A me LinkedIn piace, pure molto. Mi piace addentrarmi nelle competenze e nella creatività delle persone. Mi piace scoprire la passione che hanno per il loro lavoro e approfondire temi che mai mi avevano sfiorato. In tutto questo amore c’è un ma.

Nell’ultimo periodo nascondendo il nome della persona che ha pubblicato un post non si riesce a capire chi sia, non si riesce a percepire la sua voce. Non c’è più un singolo typo (bene) ma non c’è nemmeno nessuna costruzione di quelle che esprimono sentimenti veri, che sono generalmente riconoscibili per una minor linearità, per un tono che fa, già da solo, metà del messaggio. Tra tutti i “sono fiera di…” i “siamo orgogliosi di…” un testo scritto con l’IA si spotta (riconosce) in un secondo se si sa cosa guardare. 

Ecco allora 7 segnali che quel copy è stato scritto da una IA 

  1. Ripetizioni e fuffa per colazione 

L’intelligenza artificiale, soprattutto se usata in modo superficiale, utilizza una terminologia molto generica e spesso ripetitiva. La qualità dei sinonimi è abbastanza scadente e propria di un registro “basic”. C’è poca contaminazione linguistica e, generalmente, nessun gioco di parole. Si ha spesso la sensazione di aver letto parole, ma non un vero e proprio messaggio.

  1. Risultati “corretti”

Se è vero che l’IA può sbagliare generalmente offre dei risultati corretti, da 6 e mezzo per dirla come la si direbbe alle scuole superiori. Un compitino fatto, che ti evita l’insufficienza, ma che in realtà non ti fa arrivare da nessun’altra parte. Senza parlare dell’enorme rischio di non vedere errori plateali di concetto, o una scarsità di contenuti, in un testo “corretto”.

  1. Periodi da “libro di grammatica”

Soggetto, verbo, complemento. Che non è un male, anzi, molto spesso consiglio di partire da qui quando non si sa cosa scrivere, oppure per rendere un concetto complesso un po’ più semplice. Ma questi testi mancano completamente di originalità, non tengono conto della musicalità che un periodo costruito con una punteggiatura creativa (imperfetta) può ottenere. Vi riporto questo brano di Gary Provost che per anni è stata appeso di fianco al mio monitor in agenzia:

“This sentence has five words. Here are five more words. Five-word sentences are fine. But several together become monotonous. Listen to what is happening. The writing is getting boring. The sound of it drones. It’s like a stuck record. The ear demands some variety. Now listen. I vary the sentence length, and I create music. Music. The writing sings. It has a pleasant rhythm, a lilt, a harmony. I use short sentences. And I use sentences of medium length. And sometimes when I am certain the reader is rested, I will engage him with a sentence of considerable length, a sentence that burns with energy and builds with all the impetus of a crescendo, the roll of the drums, the crash of the cymbals—sounds that say listen to this, it is important. So write with a combination of short, medium, and long sentences. Create a sound that pleases the reader’s ear. Don’t just write words. Write music.”

  1. Surplus di emoji non necessarie

A ChatGPT piacciono un sacco le emoji. Le usa per creare punti elenchi, per suddividere il testo, e le troviamo generalmente all’inizio di una frase. Di base l’utilizzo è molto letterale e ha il suo vero core nei numerini su sfondo grigio. Universalmente riconosciute come le emoji più noiose.

  1. La sensazione che a parlare sia sempre la stessa persona

Questo è probabilmente il punto più sottile e più triste. Utilizzando l’IA, tutte le persone hanno la stessa voce, probabilmente perché scrivono prompt in cui non viene nemmeno menzionato un tono di voce specifico, chi è a parlare, quale registro usare. Siamo tutte bocche (o forse sarebbe meglio di tasti) intercambiabili. E si vede.

Quando leggete un copy, magari di una persona che conoscete personalmente, chiedetevi: “ma parlerebbe mai così?”.

  1. Lunghezza inutile

Potrei dirlo con un microcopy. Ma meglio inserirci duecento parole di contorno. A meno che non venga espressamente richiesto generalmente l’IA scriverà una prosa che “ci gira intorno” che aggiunge aggettivi e sostantivi (sempre gli stessi) per rendere più corposo qualsiasi testo.

  1. I trattini lunghi al posto di virgola o due punti.

Questo fa anche un po’ ridere, ma è sicuramente un campanello per riconoscere un testo scritto dall’IA. ChatGPT tende ad utilizzare il trattino lungo (em dash) nella scrittura dei suoi testi. Non si tratta di un errore, ma semplicemente non è un utilizzo comune nella nostra grammatica. In italiano generalmente utilizzeremo solo il trattino “-” (hyphen in inglese) tipicamente per collegare due parole, per esempio: periodo di utilizzo: maggio-ottobre; studiare pagine 1-10, oppure in abbinamento ai discorsi diretti “Ho davvero sonno – disse sbadigliando l’autrice – ho proprio bisogno di un caffè”. Il trattino più lungo ha degli utilizzi nella prosa quando, ad esempio, sostituisce un’interruzione “Speriamo che questo quadro non ca—”  Il quadro cadde a terra rovinosamente. Nei testi creati dall’intelligenza artificiale lo troveremo invece tra due concetti, in una posizione che in italiano riserveremo ai due punti o alle virgole.

>> dubbi sulla punteggiatura? Ne ho scritto qui.

Potremmo parlare di come l’IA, in questo momento, arranchi con il linguaggio inclusivo quando si tolgono schwa e asterischi dal piatto e di come si inventi di sana pianta delle cose alle volte, ma per il momento voglio solo sottolineare: la correttezza a tutti i costi e una velocità che non ha senso (su questo torneremo!), ci stanno rubando l’originalità. Stiamo piano piano perdendo il potere dell’imperfezione, che è una delle armi che abbiamo per descrivere un mondo imperfetto, quello in cui viviamo. Come diceva (quasi) Darwin: “dove c’è perfezione non c’è storia” non possiamo evolvere, nemmeno creativamente, se gli errori non sono parte del processo e se l’imperfezione non è un risultato accoglibile.


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