I problemi sono altri

I problemi sono (sempre) altri

Parlando di linguaggio inclusivo, parità di genere e importanza della rappresentanza, mi sento spesso dire “i problemi sono altri”. Ogni tanto usando queste parole, ogni tanto delle variazioni sul tema come: “che bello non avere problemi” o “ah beh se son problemi questi1.

La mia familiarità con questo tema mi ha fatto pensare di scriverci un breve articolo, che si conclude con qualche risposta preconfezionata doveste imbattervi in questo baluardo dell’altezza morale e impegno socio-economico.

Cosa significa veramente l’espressione “I problemi sono altri”?

La traduzione sarebbe sostanzialmente “nel mondo ci sono problemi più importanti di una “a” o una “o” in fondo ad una parola” oppure anche “se ti preoccupi di come rivolgerti ad un’altra persona allora probabilmente non hai davvero niente di importante a cui pensare”. Chiaramente ci sono un milione di sfumature di significato, ma in buona sostanza è un modo per chiudere un discorso in cui, molto facilmente, si arriva ad una radice che si vuole evitare.

Perché scavare sull’impatto sociale che un certo tipo di linguaggio può avere, fa paura.

Tirare in ballo “gli altri problemi” pare sia un ottimo modo per creare una gerarchia in cui prima vanno risolti i problemi che ci portiamo dietro dalla nascita del mondo e poi, forse, possiamo occuparci del fatto che Architetta è corretto linguisticamente e grammaticalmente parlando, ma non possiamo usarlo perché contiene tetta e fa ridacchiare.

Emma Watson - Facepalm

Il paradosso dell’allenatore (o allenatrice) da salotto

Qui non si vogliono negare le questioni socio-politiche ed economiche che mettono in ginocchio intere popolazioni, viviamo in un periodo caratterizzato dalla violenza e dalla prevaricazione fisica e ideologica. È molto chiaro a chiunque. Ovviamente queste sono situazioni che vanno risolte, in cui fare la propria parte se possibile. Ma un impegno politico in un senso non annulla la necessità e la possibilità di impegnarsi su un livello quotidiano.

Sfortunatamente (ma spesso anche no) la maggior parte della popolazione può poco in tema di politica estera. Qui entra in gioco quello che chiamo il paradosso dell’allenatore (o allenatrice) da salotto. In questo caso faccio riferimento alle situazioni in cui una persona che sta guardando una partita è coinvolta con grande energia e non solo fa il tifo da casa, ma prova, con parole, gesti e indicazioni, a influenzare la partita stessa. Sapete a cosa mi riferisco. Il paradosso qui è che generalmente in queste situazioni si ignora il proprio ambiente circostante, quello che si influenza effettivamente con le proprie parole o gesti.

Uscire dal paradosso è possibile semplicemente ampliando lo sguardo.

Quindi l’allenatore/trice da salotto può ad esempio spiegare ad un’altra persona il gioco, rendere comprensibile quello che sta vedendo a chi magari non può farlo. Questo non mina l’esperienza del guardare la partita, ma si occupa anche di un piano sociale vicino a sé. Rings a bell?

Non sono solo parole

Il linguaggio non permette solo una comprensione superficiale, ma è il modo che abbiamo per descrivere, conoscere e spiegare la realtà. Dare un nome significa poterne parlare, fornire un’identità. Ciò di cui non possiamo parlare o discutere è, di fatto, come se non esistesse. Come possiamo affrontare un discorso sulle donne ai vertici delle loro professioni se rifiutiamo di usare le parole giuste per descriverle?

Nel momento in cui neghiamo che il problema linguistico sia un problema, ne stiamo negando un altro molto presente di carattere sociale. Se pensiamo che sia soltanto una inutile preferenza, allora non stiamo capendo che dietro ad un “AvvocatA” al posto di “AvvocatO” c’è una questione sociale. Che dietro alla nomina di una donna ai vertici di un’azienda non c’è un contentino, ma una strada da aprire.

Potremmo obiettare che anche i problemi sociali combattuti tramite il linguaggio fanno vittime, ma questo articolo prenderebbe una piega molto diversa.

Avendo una panoramica un po’ più ampia ecco allora: 

3 risposte all’affermazione “I problemi sono altri”

  1. L’esistenza di altri problemi non annulla questo, con la differenza che per questo possiamo effettivamente fare qualcosa.

Se all’interno di un gruppo di persone ognuna si impegnasse ad utilizzare un linguaggio più inclusivo e prestasse maggiore attenzione a come si esprime, questa influenza si sposterebbe poi inevitabilmente anche in altri poli sociali, portando un cambiamento visibile. Non possiamo risolvere tutti i problemi del mondo, ma possiamo intervenire su alcuni. 

  1. I problemi sono altri o provare a risolvere questo ti spaventa?

Che sia per la paura di perdere un privilegio, di un ribaltamento dello status quo o dell’ignoto, molto spesso è questo il sentimento che porta a chiudersi verso un cambiamento. In questa casistica si ritrovano le persone che vedono un aumento di diritti di un’altra persona come una propria perdita. Chiamare un’ingegnera in modo corretto non toglierà mai nulla a tutti gli ingegneri uomini presenti-passati-futuri, così come riconoscere l’esistenza delle persone non binarie, e includerle nel linguaggio, non avrà nessun impatto su chi si identifica nel genere maschile o femminile. 

  1. Hai mai provato a immedesimarti in una persona che ha questo problema?

Una perifrasi per dire la mia frase preferita “se non è un problema per te non significa che non lo sia per un’altra persona”. Qui parliamo di empatia, ma anche di buon senso. Io non saprò mai cosa significa essere una donna nera o un uomo omosessuale, quello che posso fare però è imparare come comportarmi perché le nostre esperienze di vita non siano segnate dal pregiudizio 

Che la frase “i problemi sono altri” sia detta in modo provocatorio o sincero è importante che non fermi un dialogo cruciale come quello sul linguaggio e la necessità di rappresentanza. Quindi sì, i problemi sono anche altri, ma questo non annulla tutto il resto.

Approfondimenti:

  1. Se volete addentrarvi nel perché conosco così bene l’argomento una volta finito l’articolo vi consiglio la mia rubrica Instagram “Oh no! Ho preso gli hater!” trovate qui la prima puntata ↩︎


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